Riflessioni Avvento “QUALE SENTIMENTO VERSO I POVERI ?”

Riflessioni Avvento “Non accontentiamoci di poco!”
13 Settembre 2016
Avvento “Attendere”
13 Settembre 2016

Riflessioni Avvento “QUALE SENTIMENTO VERSO I POVERI ?”

QUALE SENTIMENTO VERSO I POVERI ?

Avvento = attesa del ritorno del Signore.

Noi non dobbiamo guardare questo evento sempre dalla parte dell’uomo ma bisogna guardarlo anche dalla parte di Dio, perché Egli ci attende per il ritorno ad una dimensione della vita meno preoccupata degli aspetti personali e più interessata a cogliere il senso divino della salvezza.

Siamo richiamati da un’atmosfera particolare che favorisce la riscoperta Cristo e di certe virtù quasi volessimo per un attimo rientrare la nostra vita sul piano morale.

Senza dubbio questo modo di fare non è del tutto sbagliato ma a condizione che il proposito si trasformi in concreta continuità.

Dio ci attende in tema di comunione, di disponibilità al perdono senza calcoli, alla solidarietà con l’uomo incapace, disorientato, confuso: il povero insomma , cioè colui che ha piegato irrimediabilmente le ginocchia sotto il peso di una vita che non riesce più a gestire ed a vivere degnamente , perché qualcuno gliela strappata o perché nessuno riesce a garantirgli.

Il Signore ci attende e ci chiama alla Carità.

Nelle riflessioni degli ultimi anni, abbiamo trattato questo argomento, riflettendo sulla Parola i Dio e su

alcune delle icone bibliche più classiche: la parabola del Buon Samaritano, quella dei “Talenti”, la “La

lavanda dei piedi.

Questa sera invece ci soffermiamo su un aspetto che può sembrare marginale, poco rilevante invece esso si rivela di vitale importanza.

Vogliamo partire dal “primo momento” della nostra esperienza con la povertà , perché se il nostro atteggiamento ed i nostri sentimenti sono quelli giusti allora come dice un proverbio: “chi ben comincia fa già la metà dell’opera”, altrimenti, noi non solo non serviamo il povero ma rischiamo di servirci di lui, assumendo un atteggiamento distorto e pericoloso.

Domanda:

Quale sensazione o sentimento abbiamo quando incontriamo un povero o captiamo una situazione di disagio ?

Valutiamo insieme alcuni dei sentimenti e degli atteggiamenti più ricorrenti:

  1. IL DISPREZZO:

    Disprezzo = schiavitù e sfruttamento.

    Nei tempi passati gli esseri sono stati oggetti di scambio come delle merci.

    Pochi hanno osato ribellarsi e tra questi ci furono i cristiani perché l’insegnamento dato da Gesù non permetteva di fare distinzioni fra gli uomini.

    Infatti come ricorda San Paolo << Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù>> (Gal 3,28).

    Pensavamo che il tempo avrebbe via via rimesso a posto le cose, invece anche se abbiamo assistito ad un progressivo riconoscimento dei diritti umani, non è stata del tutto cancellata la tendenza a considerare gli esseri umani una merce, anzi a volte ancora oggi si arriva a legittimare diritti per sottomettere altri uomini secondo assurde logiche di possesso di potere e di sfruttamento.

    Pensiamo alla prostituzione, ai bambini soldato, ai ragazzi vittime degli abusi sessuali, al lavoro minorile, ai lavoratori sottopagati e sfruttati.

    E il cristiano dove sta, … meglio noi dove siamo, cosa facciamo ?

    Siamo capaci di scuotere le coscienze favorendo la loro rivoluzione senza esasperare i toni del confronto ?

    A tal proposito il profeta Isaia nel cap. 2,2-5 ci richiama a non ingrandire i nostri arsenali di spade e lance ma piuttosto di ingrandire i depositi di vomeri e falci dove questi attrezzi al contrario dei primi sono i simboli costruttivi che ci chiamano a rendere la nostra vita cristiana più vera, altrimenti tutto il fermento no global a cui stiamo assistendo rischia di diventare una Torre di Babele.

    *********************

    ……..INDIFFERENZA DISAGIO, DIFFIDENZA..

  2. Attegiamento d’indifferenza, lo stesso che ebbero il sacerdote ed il levita nel racconto del “Buon

    Samaritano”, perché i bisogni degli altri ci mettono in difficoltà, ed allora scarichiamo sugli altri le

    competenze e le responsabilità.

    Rimaniamo chiusi in noi stessi, vivendo una fede troppo personale, rinunciando a “scendere in campo” per fare i conti con la realtà di ogni giorno.

    Ecco perché come il sacerdote ed il levita non “riconosciamo” il ferito e se proprio non possiamo fare a meno d’incontrare il suo sguardo , quando lo facciamo avvertiamo una sensazione di disagio

    perché più che un incontro subiamo un’irruzione.

    E’ come stare in casa ed all’improvviso ci bussa alla porta qualcuno che noi non attendiamo in un

    momento in cui abbiamo la nostra casa in disordine.

    La prima reazione è quella di non voler rispondere facendo finta che in casa non c’è nessuno, perché

    l’incontro non è previsto e perché non ci sentiamo pronti ad accogliere, chi ci chiama.

    La casa diventa così simbolicamente la nostra fede che non sempre è ordinata, non voler aprire è

    non ammettere le nostre condizioni di debolezza e di peccato.

    Dobbiamo far vedere sempre che siamo in ordine e che certi problemi non c’investono.

    Non apriremo mai la porta dicendo “scusa per il disordine”, perché fra l’altro

    e rimaniamo ancora lontani e timorosi dal sacramento della Riconciliazione, ignari

    che Dio ci accoglie ogni volta, ci prende per mano rimettendoci sulla via giusta

    perché avvenga in noi il miracolo della conversione, la strada che inevitabilmente dobbiamo

    percorrere per rendere pienezza ad ogni nostro gesto:

    <<Il fratello che mi passa accanto in ogni momento della giornata, io debbo amarlo in modo che Cristo nasca, cresca, si sviluppi in lui ma prima ancora in me>>.

    Allora non facciamo vedere che la nostra disponibilità dura solo per il Natale, perché dobbiamo liberarci la coscienza, che però inizia a “sporcarsi” subito dopo.

    Diamo forma, corpo alla Carità senza scadenza perché essa non ha traguardi ma è un cammino che però impone un cambiamento di vita.

    Domandiamoci:

    Quanto è rimasto della nostra solidarietà, della nostra offerta che ultimamente abbiamo dato ad esempio alle persone vittime del terremoto in Molise ?

    Ci siamo messi solo in bella mostra facendo a gara di solidarietà ??

    Dopo quel gesto, è cambiato qualcosa nella nostra vita, viviamo davvero da

    convertiti ?

    Bisogna anche sottolineare che la conversione significa rivedere anche la nostra cultura.

    Pensiamo per esempio al nutritissimo esercito di quelli che credono senza appartenere, quelli cioè rimangono lontani perché sono diffidenti e non comprendono che la Chiesa è serva, realtà di comunione e non “ un assoluto” perché l’assoluto è Gesù Cristo, anche quando qualcuno non fa bene il proprio dovere e mette in serio pericolo la credibilità della Chiesa stessa.

    . continuiamo sul tema della serata…….

  3. C’è un altro tarlo che mette in serio pericolo la nostra fede e la nostra relazione con gli altri ed è quello della diffidenza. Quando scrutiamo un povero c’è sempre una domanda che ci poniamo: questo disagio, questa povertà sarà vera ?

La domanda è più che lecita perché la Carità è prima di tutto verità e quindi non dobbiamo cadere nei tranelli di chi fa della propria indigenza una sorta di commercio, ma ricordiamo di essere sempre accoglienti.

Solo chi accoglie capisce se davanti a se si trova un imbroglione o veramente una persona bisognosa.

Se invece si rimane diffidenti il rischio è quello di non riconoscere il vero povero.

Ma allora, qual è il sentimento giusto, quello cioè capace di scongiurare l’insorgere del disprezzo, correggere l’indifferenza e l’ipocrisia, dare coraggio e sostegno alla diffidenza?

Leggiamo attentamente un brano del Vangelo di Matteo, precisamente il capitolo 9 dal versetto 35 al versetto 37.

LA COMPASSIONE

La compassione è il sentimento, che ci fa partire con il piede giusto.

Essa è per definizione il sentimento di sofferenza per i dolori altrui, connesso al desiderio di lenirli.

Si presenta così articolata da imporre una riflessione da dividere in due parti, perché due sono i momenti sui quali dobbiamo porre la nostra attenzione:

1°) sofferenza per i dolori altrui cioè farsi carico del dolore degli altri.

La Croce.

Basterebbe questa parola, per avere la massima definizione, non bisogna aggiungerne altre, perché si rischia di deformarne il significato.

Come possiamo soffrire per i dolori altrui se non riusciamo tante volte a sopportare il nostro dolore?

Ci chiediamo spesso : perché proprio io devo portare quella Croce ?

Sul calvario della nostra vita non ci si arrampica da soli.

Soffrire non è un’invenzione crudele di Dio ma significa imitare Cristo, perché la nostra sofferenza e quella degli altri alimentano la speranza e tengono alto lo stato di grazia e di redenzione.

Questi concetti sono difficili da assimilare per noi che vediamo il dolore come una condanna, però se non comprendiamo il vero significato di dolore , rischiamo di non capire la logica di quel Venerdì Santo, di quel pezzo di legno al quale è rimasto appeso Gesù e di quel grido con il quale Egli ci ha salvato.

Nel brano del Vangelo appena letto, Egli fu attento, pronto a capire che era venuto il momento di dare una svolta alla Sua missione

Fino a quel momento non c’era un proficuo coinvolgimento da parte dei suoi discepoli, bisognava dare una continuità ed allora ecco che vennero chiamati quelli che da lì a poco diventarono gli apostoli.

Questo c’insegna che non basta solamente “soffrire” per i dolori degli altri, ma bisogna dare continuità ai nostri sentimenti.

Introduciamo allora il secondo aspetto del significato di compassione:

2°) desiderio di lenire i dolori altrui che si trasforma poi nell’impegno al quale ognuno di noi è chiamato.

E’ lo scendere in campo già citato questa sera, che vogliamo ribadire parlando brevemente della solidarietà un tema molto discusso ma anche tanto confuso e spesso male interpretato.

La solidarietà non è un superficiale intenerimento del nostro stato d’animo per i mali di tante persone ma è la determinazione ferma e perseverante d’impegnarsi per il bene comune profuso con gratuità e altruismo facendo propri anche i problemi che non sono nostri, per trovarci ancora sulla stessa linea della parabola del Buon Samaritano.

Noi cristiani abbiamo sempre chiamato la solidarietà con un nome ben preciso ovvero la carità che è stata purtroppo e troppo spesso ridotta a pura elemosina.

Siamo arrivati alla consuetudine per la quale esercitare la carità consiste solo nel fare l’elemosina, impedendo alla carità stessa di esprimere tutta la sua pienezza:

Amore , testimonianza del Cristo risorto portata in mezzo alla gente che ha bisogno di mangiare ma anche di vedere “La Luce” per ritrovare la forza necessaria per tirarsi fuori dal disagio.

Non vogliamo andare oltre anche se l’argomento è vasto e meriterebbe di essere trattato da solo.

Conclusione:

Fino a questo momento, abbiamo riflettuto su aspetti della nostra vita e della nostra fede che hanno messo a nudo quanta difficoltà incontriamo a comprendere i sentimenti giusti, a farli nostri e trasferirli agli altri.

Per un attimo siamo tentati ad arrenderci di fronte a tanta debolezza.

Il Signore c’invita a metterci in attesa che venga il tempo della speranza perché verrà una luce ad illuminare il nostro cammino, una fiammella che riaccenderà la nostra fede e che interverrà contro ogni nostra disperazione.

La speranza in questo caso non è qualcosa che si possiede ma qualcuno che venendo a noi ci possiede(Bruno Forte).

L’attesa infatti prenderà forma e diventerà la venuta di Colui per il quale vale sempre la pena di vivere, amare e sperare sulla sua parola: : Gesu Cristo .

<< Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fine alla fine del mondo>> (Matteo 28,20)

Dice un proverbio popolare <<Si può vivere senza sapere perché, ma non si può vivere senza sapere per chi>>.

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